Gli sconfitti – L’impiegato Giuseppe. Un’esistenza in un giorno

Le cinque del mattino. Terribilmente puntuale grida a squarciagola la piccola e nevrotica sveglia di plastica, annunciando l’inizio dell’ennesimo giorno.
Dalle profondità di un letto matrimoniale emerge un braccio corto e scarno, che arresta subito l’insistente e monotono lamento dell’infernale aggeggio meccanico.
Sbadiglia, si stira, apre gli occhi, di nuovo sbadiglia e, dopo alcuni secondi di immobile e vuota attesa, si alza il quarantenne impiegato Giuseppe, adagio e con grande accortezza, muovendosi nel fitto buio della stretta camera da letto per non turbare il sonno dell’amata moglie Maria.
Giuseppe si dirige in bagno. Qui, dopo aver sorpreso un grasso scarafaggio in fuga, spaventato dalla luce improvvisa, si guarda allo specchio, scruta il suo volto smunto con un’espressione indifferente, apatica. Su di esso fa scorrere le dita della mano, esaminando la lunghezza della barba. Deve essere tagliata.
Sbrigata in pochi minuti questa fastidiosa, ma necessaria pratica, si lava rapidamente il viso, i denti ingialliti da decenni di tabacco, la testa rasata e le orecchie. Quindi si spoglia del pesante pigiama e provvede anche all’igiene delle ascelle, dei piedi e delle parti intime. Fatto ciò si asciuga e indossa delle mutande pulite, la maglia della salute, i calzini, la camicia bianca, la cravatta e il vestito, entrambi marroni. Come sempre, tutto era stato preparato in bagno la sera prima, così da non disturbare la consorte. Allacciate le scomode e dozzinali scarpe scure, come del resto è dozzinale l’intero suo guardaroba, Giuseppe torna a muoversi con familiarità e agilità nelle tenebre, rientrando nella camera da letto per salutare, con un lieve bacio sulle pallide e scavate gote, Maria.
Percorso il breve corridoio che separa la stanza dall’ingresso del modesto appartamento condominiale, Giuseppe afferra dall’attaccapanni il vecchio e lungo cappotto, anch’esso marrone, come la cravatta e il vestito, lo indossa e, con quella stessa mano con la quale poco prima, senza alcuna dolcezza, si era accarezzato il volto e lo aveva ripulito di ogni ispido e grigio pelo, afferra la valigetta. Apre il portone, esce, richiude il portone e si incammina giù per le scale.
Immerso nel silenzio solenne del palazzo, come ogni altro mattino conta gli scalini, non stupendosi più da anni che il loro numero resti invariato nel tempo.

***

Giuseppe si dirige a piedi alla stazione, dove lo attende il treno regionale che dalla cittadina di provincia in cui vive, forse sarebbe meglio dire in cui dorme, lo condurrà a Roma, dove lavora. Un cammino di una decina di minuti, impreziosito dalla prima sigaretta della giornata.
Giuseppe procede con un’andatura lenta, quasi affranta, strascinando ogni passo come se fosse vittima di una stanchezza cronica, causata dallo sforzo necessario alla sopravvivenza. Il suo sguardo è però irrequieto, smorto, è vero, ma errante, curioso. Mentre cammina scruta ogni angolo della strada, ogni singola automobile che gli passa accanto.
Il vento freddo lo sferza, penetrandogli fin dentro le ossa. Sembra che si accumuli all’interno del suo stomaco vuoto riempiendolo, saziandolo insieme al fumo velenoso.
Per abbreviare il tragitto, come ogni altro mattino, Giuseppe prende una scorciatoia, insinuandosi in uno squarcio della rete arrugginita che costeggia la stazione.
Il treno è lì, al primo binario, pronto e illuminato. Sebbene manchino ancora parecchi minuti alla partenza, diversi pendolari hanno già preso posto nei consunti vagoni a due piani, riparandosi così dall’insidioso gelo.
Giuseppe sale sulla prima carrozza, si libera del cappotto, posto insieme alla valigetta nel portabagagli, e si accomoda. Potrebbe benissimo prendere il treno successivo, quello delle sei e trenta, guadagnando così qualche prezioso minuto di sonno, ma il terrore di un ritardo, che minerebbe la sua proverbiale puntualità, lo convince a muoversi sempre con largo ed esagerato anticipo.
Giuseppe è indicibilmente attratto dalle fisionomie dei pendolari che lo circondano e che, nel giro di poche fermate, riempiono in ogni angolo i vagoni. Trascorre i primi minuti del viaggio scrutandoli, tentando così di carpirne le essenze. Prova sentimenti contrastanti.
Se, per esempio, esaminando i molti immigrati che affollano quotidianamente il treno regionale, prova una profonda ammirazione per il loro coraggio, nei confronti dei suoi numerosi colleghi in giacca e cravatta avverte un’intima pietà, condividendone il triste e grigio destino.
Un discorso a parte meritano i giovani studenti. Quando gli irrequieti occhi scuri e ordinari di Giuseppe si imbattono in uno di loro, immediatamente l’impiegato è afferrato da una viva, bruciante e lacerante invidia, tanto forte da mozzargli il fiato. Gli torna infatti subito alla mente tutto quel che resta della sua giovinezza, e assieme a questi vividi e compianti, ma sconnessi, brandelli di ricordi, l’amara consapevolezza di averla perduta per sempre.
Allora, per alleviare il dolore, volta lo sguardo dall’altra parte, verso il finestrino.
L’alba è vicina, il cielo cupo e denso di minacciose e immense nubi si sfuma di un rosso sanguinoso, che annuncia l’avvento del sole.
Giuseppe vorrebbe godersi lo straordinario spettacolo, ma proprio nell’attimo topico è sempre preda di un leggero sonno che ne annulla la volontà. Il capo appoggiato al vetro unto, le palpebre serrate, le mani inermi appoggiate sulle gambe.

Estate. Giuseppe si trova in spiaggia, i piedi affondati nella sabbia ancora calda. Il sole è basso, sta per tramontare, per svanire al di là dell’orizzonte. Tutt’intorno solamente l’armonioso suono delle onde in perpetuo movimento. Non c’è nessuno. Una miriade di ombrelloni variopinti, chiusi, perfettamente allineati, ma nessun individuo.
Giuseppe osserva il mare, non distoglie neppure per un istante lo sguardo dall’immensa distesa azzurra, dalla quale improvvisamente esce una figura femminile dai lunghi capelli neri. Indossa un costume a due pezzi nero. Giuseppe la riconosce dopo qualche secondo. È Maria, la moglie, in tutta la freschezza e la gaiezza dei suoi trent’anni. Lei lo guarda e gli sorride. Lui la ammira rapito.
Maria gli si avvicina, ma a ogni passo il suo sorriso perde intensità. Inoltre muta aspetto. A ogni passo il suo corpo snello e magro perde tonicità e sul volto compaiono le rughe.
Giunta a un metro da Giuseppe, Maria è oramai seria e ha raggiunto i suoi attuali quarant’anni. Ora guarda il marito con un’espressione del volto rassegnata, e si porta le mani rachitiche, quasi trasparenti, sul ventre piatto, sul grembo vuoto e gelido.
Giuseppe vorrebbe accarezzarla, consolarla, ma non riesce a muoversi né a parlare. Allora i due si siedono sulla spiaggia, uno accanto all’altra. Osservano il sole tramontare, svanire al di là dell’orizzonte, mentre l’armonioso suono delle onde in perpetuo movimento gli risuona adagio nelle orecchie.

Arrancando negli ultimi metri, il treno sovraccarico finalmente giunge a destinazione, alle sette e trenta, con il fisiologico quarto d’ora di ritardo.
Giuseppe è l’ultimo passeggero a lasciare il vagone. Attende che si svuoti del tutto, quindi si alza, si stira e sbadiglia, indossa il cappotto, afferra la valigetta e scende dalla carrozza, dirigendosi al solito bar per la colazione.
È con un altezzoso barista che l’impiegato scambia le prime parole della giornata.
«Buongiorno. Desidera?».
«Buongiorno. Vorrei un caffè espresso e un cornetto semplice».
Dopo un minuto circa di attesa, che Giuseppe impiega osservando l’enorme massa di viaggiatori assonnati che affolla la stazione di Roma Termini, il barista torna con l’ordinazione e il conto.
«Ecco a lei. Sono due euro».
Giuseppe ringrazia, estrae dal sottile e vecchio portafogli di finta pelle la moneta e paga.
Consuma con grande calma la colazione, in piedi, mangiando prima il cornetto vuoto e bevendo dopo in un solo e rapido sorso il caffè rigorosamente amaro.
Giuseppe si allontana dal bar con un educato «arrivederci», che non ottiene risposta, e si dirige fuori dalla stazione, dove accende e fuma con avidità la seconda sigaretta della giornata. Tra una boccata e l’altra il suo sguardo si posa sulla strada, intasata da una moltitudine di automobili borbottanti e infuriate che procedono lentamente.
Esaurita la sigaretta Giuseppe riprende il cammino verso il posto di lavoro. Abbandona l’opaca luce del mattino invernale e scende nelle umide e caotiche viscere della capitale. Un breve tratto di metropolitana, che Giuseppe affronta in piedi, poi di nuovo in superficie.
I suoi polmoni, affaticati da decadi di tabacco e dalla pesantezza delle profondità, gioiscono della leggerezza dell’aria aperta.
Dopo una breve passeggiata di circa cinque minuti, Giuseppe raggiunge “finalmente” il posto di lavoro.

***

Gli uffici dell’azienda presso cui Giuseppe è impiegato, si trovano al quarto piano di un palazzo piuttosto moderno, che si distingue evidentemente dagli edifici storici che lo circondano.
Giuseppe preferisce servirsi delle scale, sempre impeccabilmente lucide, invece di utilizzare l’ascensore, così da poter compiere almeno un poco di salutare moto quotidiano.
Saluta ogni collega con grande affabilità, accompagnando i cortesi «buongiorno» con sorrisi discreti, ma sinceri.
Raggiunta la sua ordinata postazione – Giuseppe è un vero e proprio maniaco dell’ordine – l’impiegato posa la valigetta sulla bianca scrivania e si sfila il cappotto, che appende con grande cura. Si accomoda poi sulla poltrona in pelle e, per qualche secondo, resta fermo, immobile, lasciando che il calore dell’ufficio gli penetri in tutto il corpo, distendendo i muscoli tesi e rattrappiti dal freddo che imperversa all’esterno.
Giuseppe si immerge subito, con tutto se stesso, nel lavoro, che svolge da dieci anni con dedizione e parsimonia. È un impiegato modello, riservato, estremamente mansueto ed educato. Mai una parola fuori posto né un atteggiamento sgarbato. Il suo carattere placido e i suoi modi posati, serafici, causano l’ilarità dei suoi spigliati e spiritosi colleghi, che si prendono gioco di lui alle sue spalle. Non le colleghe, che provano per Giuseppe un affetto spontaneo. Forse per i suoi gesti sempre impacciati e insicuri, o per le sue parole sempre cordiali e gentili. Un affetto tuttavia fraterno, compassionevole, che induce una donna a commiserare, ma mai ad amare l’uomo verso cui è rivolto.
Le ore lavorative di Giuseppe, come del resto quelle di ogni altro impiegato, sono otto, quattro al mattino e quattro al pomeriggio, intervallate dalla pausa pranzo. Giuseppe la trascorre sempre nello stesso bar, che si trova al piano terra dello stesso palazzo della sua azienda.
Solo, si siede ogni giorno al medesimo tavolo, il più isolato, e mangia e osserva i suoi simili indaffararsi fuori. Tutti nel locale lo conoscono bene, ma, così come a lavoro, mai nessuno se l’è sentita di instaurare con lui una relazione amichevole. Solamente convenevoli e rapide battute. Mai lunghe conversazioni oppure pacche sulle spalle. Difficile capire il perché, forse nel suo aspetto c’è qualcosa che scoraggia le persone ad approfondirne la conoscenza. Forse la sua persona emana un senso di malinconia, peggio, di mestizia, che intimorisce gli altri, i quali, forse, temono di esserne contagiati.
In ogni caso, a Giuseppe non dispiace affatto non avere amici, tutte le sue attenzioni sono rivolte a una sola persona, l’amata moglie Maria, l’unica che lo comprenda o, quantomeno, lo accetti per quello che è. La consorte e il lavoro, nient’altro. Tutto il resto è superfluo, inutile.
A Giuseppe non dispiace neanche sapere che non farà mai carriera. Troppo poco intraprendente, troppo remissivo e rispettoso delle regole. Quando qualcuno, scherzosamente o sul serio, glielo fa notare, lui reagisce con un sorriso e un’alzata di spalle.
In ufficio lo chiamano tutti “il garzone”, in quanto impiegato tuttofare. Questo appellativo, che in molti considererebbero offensivo, gli scivola addosso, come tutto il resto, eccetto quel che riguarda la moglie.
Giuseppe e Maria hanno caratteri molto simili. La loro è una relazione ordinaria, monotona, ma inossidabile. Mai nessuno dei due si permetterebbe di far soffrire l’altro. Sono del tutto consapevoli del grigiore delle loro insignificanti esistenze e, proprio per questo motivo, non se ne affliggono. Sopravvivono l’uno al fianco dell’altra osservando i giorni, i mesi e gli anni scorrere ininterrottamente e tutti uguali, senza lasciare spazio al dolore, alla tristezza, alla malinconia oppure alla mestizia. Una pacata accettazione della loro condizione li rende immutabili e solidali, imperturbabili.
Giuseppe lascia l’ufficio alle diciotto e ripete lo stesso, identico tragitto dell’andata, solamente in direzione opposta.

***

Giuseppe sale sul treno delle diciannove, colmo come quello del mattino. La mezz’ora di anticipo con la quale giunge in stazione lo ripaga di un posto.
Giuseppe trascorre l’intero viaggio di ritorno con lo sguardo proteso oltre il finestrino. Solamente di tanto in tanto, e per pochi secondi, volge gli occhi verso gli altri passeggeri.
Il suo piccolo e vecchio corpo è stanco, la sua mente svuotata dalle intense ore di lavoro. Non ha la forza di pensare, le sue attenzioni sono tutte rivolte alle innumerevoli luci che fuori si susseguono velocemente nel buio. Le sere d’inverno, fredde e desolate, hanno qualcosa di tremendamente triste, ancor più se trascorse su di un treno regionale sporco, scomodo e affollato, schiacciato da un’aria pesante nella quale si concentrano sudori e fatiche di un’intera giornata lavorativa.
Ma nell’animo di Giuseppe non c’è spazio per tale tristezza. Tra poco sarà a casa, tra le confortanti mura domestiche in compagnia dell’amata Maria.
Le voci spossate degli altri pendolari giungono alle orecchie di Giuseppe attutite, come deboli eco. È come se tutti i suoi sensi, terminato il lavoro, si annullino. Eccetto la vista, impegnata a catturare ogni singolo bagliore esterno. La sua osservazione tuttavia non ha uno scopo, né causa riflessioni. Giuseppe protende gli occhi al di là dell’ampio finestrino scarabocchiato, perché è nella loro natura scrutare quelle luci.
Non è la sua volontà, ma la volontà dei suoi occhi, gli unici elementi del suo corpo che sembrano non volersi arrendere all’inevitabile declino, allo sfacelo dell’invecchiamento, accelerato da una condizione esistenziale monotona come l’oscillare di un pendolo.

***

A questo punto della giornata l’andatura di Giuseppe, oltreché lenta, è anche pesante. La sua mano regge quasi per inerzia la valigetta, che oscilla ritmicamente.
Prima di rientrare a casa, l’impiegato si ferma nell’unico negozio del quartiere in cui abita ancora aperto, un fioraio. Tutte la altre attività commerciali sono oramai chiuse, le serrande abbassate, impenetrabili. Per strada non c’è nessuno.
«Buonasera. Posso?», chiede con la sua consueta cortesia Giuseppe, all’anziana e gobba fioraia intenta a riportare all’interno del negozio alcune piante esposte fuori, sul marciapiede.
«Prego signor Giuseppe. Il solito mazzolino di fiori colorati e profumati per la signora Maria?».
«Sì, grazie. Vuole che porti dentro questi ultimi due vasi?».
«Magari signor Giuseppe. Com’è andata oggi?».
«Come al solito. Non ci si può lamentare. Grazie dell’interessamento».
«Ecco a lei il mazzolino di fiori colorati e profumati per la sua gentile signora».
Giuseppe paga, lasciando all’anziana e gobba signora il resto.
«Grazie signor Giuseppe. Mi saluti tanto la signora Maria. Oggi non l’ho vista. Buona notte».
«Buona notte a lei, e non tardi troppo. In giro non c’è più nessuno e fa anche piuttosto freddo. Arrivederci».
Giuseppe percorre i pochi, ultimi metri che lo separano da casa trasportando il modesto dono per la moglie con estrema, quasi maniacale accortezza, come se si trattasse di un’antica reliquia dal valore inestimabile.
Entrato nel piccolo appartamento, Giuseppe nota subito il profondo silenzio. Una sola luce è accesa, quella della cucina.
Giuseppe comprende immediatamente la ragione dell’assoluta calma. Maria deve essere stata colpita dal periodico, violento attacco di emicrania. Ne soffre dall’infanzia. Ebbene, in un tale, nefasto giorno la donna si barrica in casa, immobile nel letto, immersa nel buio. La feroce emicrania che le batte il capo colmo di sottili e crespi capelli scuri, le impedisce di compiere anche l’azione più semplice, e nessun medicinale riesce ad alleviare le sue terribili sofferenze.
Una smorfia d’amarezza mista a pietà, attraversa il volto di Giuseppe, che, dopo essersi liberato per l’ultima volta della valigetta e del cappotto, e aver posato i fiori sul tavolo della cucina, si dirige in camera da letto lentamente, per verificare le condizioni di Maria.
Respira piano. Giuseppe la bacia con dolcezza sulle gote gelide. Trascorre qualche istante osservandola. Per lui, oggi, non ci sarà neppure una sola carezza. Ciò lo addolora più di qualunque altra cosa.
L’impiegato si trasferisce in bagno, si spoglia e si fa una rigenerante doccia bollente. L’acqua calda lo rilassa, lo ripulisce delle fatiche, gli dona una nuova energia. Immobile e con gli occhi chiusi, le braccia abbandonate lungo il corpo, si lascia colpire dal potente getto. Giuseppe resta così per svariati minuti. Poi chiude l’acqua, si asciuga e indossa una comoda tuta spessa.
Compie ogni singolo gesto con inaudita meticolosità, per non disturbare Maria.
Dopo un’altra, fugace e sorridente, ma affranta occhiata alla moglie, Giuseppe torna in cucina. Sistema i fiori in un vaso di plastica, quindi apre il forno al microonde, nel quale solitamente la moglie ripone gli avanzi del giorno precedente. Trova una mezza fettina di carne e una ciotola di minestrone.
Tutto sommato, poteva andare peggio.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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